Cantore della ricerca dell’autenticità del vivere, nulla ha potuto contro un destino tragico lo ha trascinato nel baratro il 27 Agosto del 1950 in una camera d’Albergo

In una Torino calda, afosa e noiosa, con poche macchine e poche persone, prese piede una decisione a lungo meditata e a lungo citata nei suoi scritti. Erano circa le 20:30 di una Domenica qualunque, quando il cameriere forzò la porta della stanza n.43 e vide Pavese steso a terra. Bastarono 20 bustine di sonnifero.
Personaggio complesso e divisivo, negli ultimi anni della sua esistenza, piuttosto tormentata, fece tappa in diverse città italiane, spostandosi da Milano a Roma. Era un autore sensibile ed immenso, capace di fiutare il senso della natura più estesa e profonda nella gravità delle crisi umane del suo tempo e della storia di quegli anni.
«Ho imparato a scrivere, non a vivere» sentenziò, nero su bianco, in un suo Diario iniziato al confino calabrese di Brancaleone. Era la colonna della Casa editrice Einaudi. Un luogo di interezza intellettuale, per lui. Ci entrava alle 8:00 del mattino e ne usciva la sera. Era quello il suo lavoro, costruito nel rapporto con l’Italia e l’Europa letteraria, tutto improntato sulla cultura.
Le cronache dei giorni seguenti la definirono ‘una crisi di depressione nervosa‘, di cui non si conobbero mai le cause, che indussero l’intellettuale all’estremo gesto. Sul comodino lasciò anche il libro a lui più caro Dialoghi con Leucò, la chiave della sua personalità e che rappresenta, tra l’alto, il tentativo più profondo ed originale della sua arte.