L’etica del Viandante è l’ultimo lavoro del filosofo brianzolo presente alla Fiera delle Parole il prossimo 5 Ottobre

L’Occidente ha due radici: il mondo greco e la tradizione giudaico-cristiana. Per quanto dischiudano orizzonti completamente diversi, entrambi descrivono un mondo dotato di ordine e stabilità. Ma noi viviamo nell’età della tecnica. È finito l’incanto del mondo tipico degli antichi. È finito anche il disincanto dei moderni, che ancora agivano secondo un orizzonte di senso e un fine.
La tecnica, inoltre, non tende ad uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela la verità. Il mondo è ora regolato dal fare come pura produzione di risultati. «L’unica etica possibile – scrive, infatti, Galimberti – è quella del viandante». A differenza del viaggiatore, il viandante non ha meta. Il suo percorso nomade, tutt’altro che un’anarchica erranza, si fa carico dell’assenza di uno scopo.
Il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, cammina per non perdere le figure del paesaggio. E così scopre il vuoto della legge e il sonno della politica, ancora incuranti dell’unica condizione comune all’umanità Come l’Ulisse dantesco, tutti gli uomini sono uomini di frontiera. Oggi l’uomo sa di non essere al centro.
L’etica del viandante si oppone all’etica antropologica del dominio della Terra. Denuncia l’attuale modello di civiltà e mette in evidenza che la sua diffusione in tutto il pianeta equivale alla fine della biosfera. L’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro. Il viandante, quindi, percorre invece la Terra senza possederla, perché sa che la vita appartiene alla natura. Così, alla fine, suggerisce Galimberti: «L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare, ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria ed incompiuta dimora».